venerdì 17 settembre 2010

Una favola


Questa è la storia di un lungo viaggio che iniziò un giorno, ma non ancora concluso.

La ragazza aveva nella testa grandiosi sogni, nel cuore un immenso amore, nel ventre tanto spazio e ai piedi una lunga strada. Il destino la portò via dal paese di nascita per trascinarla oltre il mare, in una nuova terra dove il sole invece di sorgere sull’acqua vi tramonta.

Non sapendo bene come vi fosse giunta, ma come capita a molti, pensando di arrivare da un'altra parte scoprì ben presto la particolarità del luogo. Si trovava espressa nell'inscrizione incisa sulla pietra del palazzo principale del paese, tra un sole ed una luna stava scritto:

BENVENUTI NELLA CITTÀ DI DOLCETERRA,
QUI LA NORMALITÀ È STRANEZZA

In realtà Dolceterra sembrava un piccolo paese dove tutti si conoscono, dove vive gente cordiale e sorridente. Con quelle persone, Francesca questo era il suo nome, si sentì tra amici. La calda accoglienza solleticò in lei il buonumore e la fiducia. Arrivò a pensare, in un attimo, che tutto fosse possibile in questo bizzarro paese. Respirando forte e a fondo scoprì un caratteristico profumo: frizzante e resinoso. E mentre guardava il sole lasciare il cielo davanti se, alle sue spalle la sera si accendeva di tante piccole luci e una falce di luna.

In breve dimenticò da dove veniva e cosa e chi aveva lasciato. Incontrò persone perse e quelle mai trovate. Piovvero piogge mai piovute e splendettero soli mai sorti. Si avverò ciò che non era mai accaduto e ciò che si avverò potrebbe non essere accaduto. Certo a pensarci il luogo era bizzarro.

Posso solo dire che mi raccontò che lei era felice. Fu madre di quattro figli ma a volte di uno solo, a volte maschi a volte femmine, un giorno avevano vent'anni a volte sentiva il loro primo suono. Ognuno con personalità e carattere: ingegnosi, romantici, irosi, curiosi, vivaci o tristi ed affettuosi. Le stavano intorno come i pianeti al loro sole.
Il loro padre come loro: la mattina uscendo la stringeva e baciava un forte e rude contadino; a mezzo dì alla sua tavola si sedeva un fine ed educato signore; il pomeriggio la trascinava fuori, per mostrarle idee rivoluzionarie, un ingegnoso inventore; delle volte un dolce poeta le sussurrava parole d’amore; verso sera, sotto il pergolato, un simpatico canterino la aiutava a mettere in tavola saporiti e abbondanti piatti per la tavolata di amici e la notte un appassionato pirata la trascinava in una danza travolgente che li lasciava sfiniti tra le lenzuola.

E tutte queste normali stranezze accadevano, come accade ancor oggi, che i fiumi scorrano verso il mare.

Tutto sembrava non poter andare in modo diverso perché in modo diverso poteva sempre andare, non c'erano domande solo possibilità.

Ma un giorno, partorita dai pensieri, apparve la sua quinta figlia. Avvertì una piccola morbida mano intrufolarsi nella sua, abbassando lo sguardo vide una piccola nuova creatura che le sorrideva e con occhi intelligenti la salutava. Attraverso un bagliore emerse un fresco germoglio.
La chiamò Zoe. La piccola era leggera e trasparente, mancava di consistenza. Poi quando piangeva e chiamava mamma, Francesca la stringeva e carezzava tentando di consolarla. In poco tempo si trovava li a stringere se stessa. Disperata da quell'impotenza Francesca era afflitta.
Senza preavviso, in quello strano mondo perfetto s'era intrufolato un perché: «Perché Zoe era così?».

Intorno a questo dubbio, tutto il mondo di Dolceterra si fermò. Furono solo Francesca e la bambina per giorni, mesi.
Fino a che guardando il volto della bambina, nel suo sguardo come in uno specchio, vide se stessa bambina che domandava: «Dove andranno a finire tutte le possibili possibilità che non saranno possibili per me?». E poi: «Chi vivrà al mio posto la copia del mondo che si riflette nello specchio, e quello che si riflette nello specchio che si riflette nello specchio?».
Zoe era venuta a prenderla nel sogno in cui si era nascosta e riportarla nel mondo e alla realtà a cui doveva tornare.

Ora si sveglia in una città il cui nome non ha importanza. Una grande città in un mondo ancora più grande dove sembra non possa mai succedere nulla, ma ogni tanto qualcosa succede. Francesca è cordiale con la gente, conosce tutti.
Mi dice che ancora oggi, dopo tanti anni, non può fare meno di volgere lo sguardo al sole che sta per uscire da questo cielo, mentre alle sue spalle la sera si accende di piccole luci e di una falce di luna. Ogni tanto la incrocio all'ingresso, aspetta la giovane nipote. Mi dice che somiglia al nonno, suo marito. Dice che i miei occhi le ricordano Zoe, e dice anche: «Noi ci rispettiamo e ci vogliamo bene e quando c’è il rispetto è tutto e basta» e resta ferma a sorridermi finché non mi allontano.

Era amore quel germoglio che ha intravisto un giorno, amore per la vita che chiedeva realtà.

La storia di Francesca lo conferma. Proprio qui, dove sembra non possa mai capitare nulla, esiste quel barlume che è il motore ed insieme il fondamento della vita. Come lei tanti altri hanno fiducia in quello che si ripete da sempre: nel sole che illumina i giorni e nella luna che rischiara le notti.

Quanto a me che vi racconto questa, pensando alla sua storia, ogni tanto mi viene da sorridere a un uomo che si avvicina e sembra essere forte e rude o fine ed educato oppure a un dolce canterino demenziale

Ho fiducia, nel vivere ciò che non si può ripetere, in quella che tra tutte le possibilità possibili è la sola che si realizza.
Il biglietto per un viaggio esclusivo.

fine

Erbe selvatiche


Nel balcone di casa resistono poche piante verdi e alcune succulente, devono essermi affezionate. Si impegnano le mie piante, da lungo tempo sopportano la mia dimenticanza ad annaffiarle e l’attacco di quel fastidioso parassita che viene chiamato cocciniglia a scudetto. Quando ho cominciato con qualche vaso forse miravo ad imitare la grandiosità dei giardini pensili di Babilonia, alle elementari sentendone parlare dall’insegnante ne rimasi affascinata. In quei giardini il problema dell’acqua veniva risolto utilizzando gli schiavi per la costruzione di immense opere di canalizzazione. Nel mio balcone si risolve con numerose passeggiate avanti e indietro con l’annaffiatore ora pieno, ora vuoto. I giardini pensili di Babilonia: esistenza segreta per le nuove generazioni, con questi tagli all’istruzione, ne scopriranno la fine solo in qualche film d’avventura tipo Indiana Jones, i più pigri si accontenteranno di pensare che siano le trovate geniali degli ideatori per la pellicola in questione, siano rovine o ricostruzioni di città perdute.
Forse correlato con l’esposizione al sole: un oretta di sole feroce e poi ombra tutto il giorno, ho visto spuntare nel vaso dello Spatiphillum alcuni funghi giallissimi prima che introducessi solari succulente, quando ancora pensavo che mi sarebbe piaciuto occuparmi di un balconcino di piante fiorite.
Oggi mi sento in colpa con loro, non sanno che su quello della cucina coltivo basilico, rosmarino, erba cipollina e dragoncello che annaffio con continuità. Per non alimentare feroci invidie e gelosie: cerco di essere naturale, non farmi scoprire troppo entusiasta delle aromatiche antagoniste. Annaffio quelle piccole affaticate parlando con loro, le incoraggio. Al “Geranio rosso” ufficialmente detto Pelargonium zonale provo a dirgli che è il migliore e lui a breve, mi ringrazia con nuovi boccioli.
Più volte ho tentato di introdurre semi spontanei per invitarle ad essere meno servizievoli più ribelli, trasformare quel caos verde in un apparente ordine casuale. La povera Tradescantia blossfediana, passata alla storia e chiamata da tutti “erba miseria” introdotta da me per creare frescura e riparo alle piccole nate s’è prima espansa oltremisura contraddistinta da piccole fioriture rosa, poi anche lei ha ceduto: deve aver sentito che non eravamo affini. Inutilmente se stessa lei, esigente io alla ricerca di flora edule.
La spontaneità, sembra non voglia aderire al mio disegno, piante che normalmente infesterebbero prati, aiuole qui vengono soggiogate dalla glaciale ombra delle pareti e dalla contenuta geometria dei vasi o forse dall’inalterabilità del terreno.
Le erbe spontanee mi sono simpatiche. Sto per partire con un nuovo esperimento: far crescere nei vasi la cicoria, la borragine, l’origano, la mentuccia e il timo.
Immagino le rose di foglie delle succulente Echeveria far capolino, cercando di compiacermi, tra la Borragine delicata con le sue foglie cuoriformi, pelosette e buone formanti le gemme da cui spunteranno i commestibili fiori stellati dal colore blu. La cicoria nuova nata sotto le spine del Ferocactus Gracilis mostrare imitandolo, le per niente aggressive foglioline roncinate. Mi figuro già il suo futuro contendere con uno svettante caule, alla grande colonna spinosa e lanosa dell’Espostoa Melanostele, un raggio di sole per la maturazione dei fiori azzurri. La serpeggiante mentuccia ricadere alla ricerca di nuovo terreno tra i bei fiori peduli color fucsia e rosso acceso della Schlumbergera frida “cactus di natale”. La bella Begonia coccinea Hook: slanciata assottiglia verso l’alto, la vedo sfiorare titubante le radici aeree che spuntano lungo il fusto sottile e angolato del Selenicereus Pteranthus, evitare le costolature con le rade e regolari areole spinose per rivaleggiare con le improvvise e brevi fioriture notturne: coriandoli di piccoli fiori discreti, raccolti in rametti resistenti lunghi giorni quelle della Begonia, appariscenti, grandi a lungo tubo con numerose file di petali, belli per una sola notte quelli del Selenicereus. Queste non sono commestibili, sono un eccezione a cui non resisto. Sono belle non chiedono molto e sono generose.
Chi sa! anche nei giardini pensili di Babilonia avranno utilizzato le piante per farne manicaretti.
Mi immagino sigillare con stampo tondo, festonato futuri ravioli di sottile e porosa pasta all’uovo farciti con ripieno di foglioline di borragine e ricotta. Le cimette fresche della Borragine, prima insaporite e scottate, appena in una padella: rosolandole in olio d’oliva insieme ad un leggero e fine battuto di scalogno. Unite alla ricotta fresca e a due foglioline di mentuccia spezzettate a mano, solo una festonata a pioggia di pane grattugiato, eventualmente un filo d’olio, sale quanto basta.
Passarli in padella poco prima di servirli, farli girare nel sughetto che resta facendo sfumare del brandy in olio d’oliva completando con una spolverata di parmigiano, solo una presa da fondere leggermente sul fuoco.
Assaggiare chiudendo gli occhi e immaginare che sia tutto vero!