venerdì 17 settembre 2010

Una favola


Questa è la storia di un lungo viaggio che iniziò un giorno, ma non ancora concluso.

La ragazza aveva nella testa grandiosi sogni, nel cuore un immenso amore, nel ventre tanto spazio e ai piedi una lunga strada. Il destino la portò via dal paese di nascita per trascinarla oltre il mare, in una nuova terra dove il sole invece di sorgere sull’acqua vi tramonta.

Non sapendo bene come vi fosse giunta, ma come capita a molti, pensando di arrivare da un'altra parte scoprì ben presto la particolarità del luogo. Si trovava espressa nell'inscrizione incisa sulla pietra del palazzo principale del paese, tra un sole ed una luna stava scritto:

BENVENUTI NELLA CITTÀ DI DOLCETERRA,
QUI LA NORMALITÀ È STRANEZZA

In realtà Dolceterra sembrava un piccolo paese dove tutti si conoscono, dove vive gente cordiale e sorridente. Con quelle persone, Francesca questo era il suo nome, si sentì tra amici. La calda accoglienza solleticò in lei il buonumore e la fiducia. Arrivò a pensare, in un attimo, che tutto fosse possibile in questo bizzarro paese. Respirando forte e a fondo scoprì un caratteristico profumo: frizzante e resinoso. E mentre guardava il sole lasciare il cielo davanti se, alle sue spalle la sera si accendeva di tante piccole luci e una falce di luna.

In breve dimenticò da dove veniva e cosa e chi aveva lasciato. Incontrò persone perse e quelle mai trovate. Piovvero piogge mai piovute e splendettero soli mai sorti. Si avverò ciò che non era mai accaduto e ciò che si avverò potrebbe non essere accaduto. Certo a pensarci il luogo era bizzarro.

Posso solo dire che mi raccontò che lei era felice. Fu madre di quattro figli ma a volte di uno solo, a volte maschi a volte femmine, un giorno avevano vent'anni a volte sentiva il loro primo suono. Ognuno con personalità e carattere: ingegnosi, romantici, irosi, curiosi, vivaci o tristi ed affettuosi. Le stavano intorno come i pianeti al loro sole.
Il loro padre come loro: la mattina uscendo la stringeva e baciava un forte e rude contadino; a mezzo dì alla sua tavola si sedeva un fine ed educato signore; il pomeriggio la trascinava fuori, per mostrarle idee rivoluzionarie, un ingegnoso inventore; delle volte un dolce poeta le sussurrava parole d’amore; verso sera, sotto il pergolato, un simpatico canterino la aiutava a mettere in tavola saporiti e abbondanti piatti per la tavolata di amici e la notte un appassionato pirata la trascinava in una danza travolgente che li lasciava sfiniti tra le lenzuola.

E tutte queste normali stranezze accadevano, come accade ancor oggi, che i fiumi scorrano verso il mare.

Tutto sembrava non poter andare in modo diverso perché in modo diverso poteva sempre andare, non c'erano domande solo possibilità.

Ma un giorno, partorita dai pensieri, apparve la sua quinta figlia. Avvertì una piccola morbida mano intrufolarsi nella sua, abbassando lo sguardo vide una piccola nuova creatura che le sorrideva e con occhi intelligenti la salutava. Attraverso un bagliore emerse un fresco germoglio.
La chiamò Zoe. La piccola era leggera e trasparente, mancava di consistenza. Poi quando piangeva e chiamava mamma, Francesca la stringeva e carezzava tentando di consolarla. In poco tempo si trovava li a stringere se stessa. Disperata da quell'impotenza Francesca era afflitta.
Senza preavviso, in quello strano mondo perfetto s'era intrufolato un perché: «Perché Zoe era così?».

Intorno a questo dubbio, tutto il mondo di Dolceterra si fermò. Furono solo Francesca e la bambina per giorni, mesi.
Fino a che guardando il volto della bambina, nel suo sguardo come in uno specchio, vide se stessa bambina che domandava: «Dove andranno a finire tutte le possibili possibilità che non saranno possibili per me?». E poi: «Chi vivrà al mio posto la copia del mondo che si riflette nello specchio, e quello che si riflette nello specchio che si riflette nello specchio?».
Zoe era venuta a prenderla nel sogno in cui si era nascosta e riportarla nel mondo e alla realtà a cui doveva tornare.

Ora si sveglia in una città il cui nome non ha importanza. Una grande città in un mondo ancora più grande dove sembra non possa mai succedere nulla, ma ogni tanto qualcosa succede. Francesca è cordiale con la gente, conosce tutti.
Mi dice che ancora oggi, dopo tanti anni, non può fare meno di volgere lo sguardo al sole che sta per uscire da questo cielo, mentre alle sue spalle la sera si accende di piccole luci e di una falce di luna. Ogni tanto la incrocio all'ingresso, aspetta la giovane nipote. Mi dice che somiglia al nonno, suo marito. Dice che i miei occhi le ricordano Zoe, e dice anche: «Noi ci rispettiamo e ci vogliamo bene e quando c’è il rispetto è tutto e basta» e resta ferma a sorridermi finché non mi allontano.

Era amore quel germoglio che ha intravisto un giorno, amore per la vita che chiedeva realtà.

La storia di Francesca lo conferma. Proprio qui, dove sembra non possa mai capitare nulla, esiste quel barlume che è il motore ed insieme il fondamento della vita. Come lei tanti altri hanno fiducia in quello che si ripete da sempre: nel sole che illumina i giorni e nella luna che rischiara le notti.

Quanto a me che vi racconto questa, pensando alla sua storia, ogni tanto mi viene da sorridere a un uomo che si avvicina e sembra essere forte e rude o fine ed educato oppure a un dolce canterino demenziale

Ho fiducia, nel vivere ciò che non si può ripetere, in quella che tra tutte le possibilità possibili è la sola che si realizza.
Il biglietto per un viaggio esclusivo.

fine

Erbe selvatiche


Nel balcone di casa resistono poche piante verdi e alcune succulente, devono essermi affezionate. Si impegnano le mie piante, da lungo tempo sopportano la mia dimenticanza ad annaffiarle e l’attacco di quel fastidioso parassita che viene chiamato cocciniglia a scudetto. Quando ho cominciato con qualche vaso forse miravo ad imitare la grandiosità dei giardini pensili di Babilonia, alle elementari sentendone parlare dall’insegnante ne rimasi affascinata. In quei giardini il problema dell’acqua veniva risolto utilizzando gli schiavi per la costruzione di immense opere di canalizzazione. Nel mio balcone si risolve con numerose passeggiate avanti e indietro con l’annaffiatore ora pieno, ora vuoto. I giardini pensili di Babilonia: esistenza segreta per le nuove generazioni, con questi tagli all’istruzione, ne scopriranno la fine solo in qualche film d’avventura tipo Indiana Jones, i più pigri si accontenteranno di pensare che siano le trovate geniali degli ideatori per la pellicola in questione, siano rovine o ricostruzioni di città perdute.
Forse correlato con l’esposizione al sole: un oretta di sole feroce e poi ombra tutto il giorno, ho visto spuntare nel vaso dello Spatiphillum alcuni funghi giallissimi prima che introducessi solari succulente, quando ancora pensavo che mi sarebbe piaciuto occuparmi di un balconcino di piante fiorite.
Oggi mi sento in colpa con loro, non sanno che su quello della cucina coltivo basilico, rosmarino, erba cipollina e dragoncello che annaffio con continuità. Per non alimentare feroci invidie e gelosie: cerco di essere naturale, non farmi scoprire troppo entusiasta delle aromatiche antagoniste. Annaffio quelle piccole affaticate parlando con loro, le incoraggio. Al “Geranio rosso” ufficialmente detto Pelargonium zonale provo a dirgli che è il migliore e lui a breve, mi ringrazia con nuovi boccioli.
Più volte ho tentato di introdurre semi spontanei per invitarle ad essere meno servizievoli più ribelli, trasformare quel caos verde in un apparente ordine casuale. La povera Tradescantia blossfediana, passata alla storia e chiamata da tutti “erba miseria” introdotta da me per creare frescura e riparo alle piccole nate s’è prima espansa oltremisura contraddistinta da piccole fioriture rosa, poi anche lei ha ceduto: deve aver sentito che non eravamo affini. Inutilmente se stessa lei, esigente io alla ricerca di flora edule.
La spontaneità, sembra non voglia aderire al mio disegno, piante che normalmente infesterebbero prati, aiuole qui vengono soggiogate dalla glaciale ombra delle pareti e dalla contenuta geometria dei vasi o forse dall’inalterabilità del terreno.
Le erbe spontanee mi sono simpatiche. Sto per partire con un nuovo esperimento: far crescere nei vasi la cicoria, la borragine, l’origano, la mentuccia e il timo.
Immagino le rose di foglie delle succulente Echeveria far capolino, cercando di compiacermi, tra la Borragine delicata con le sue foglie cuoriformi, pelosette e buone formanti le gemme da cui spunteranno i commestibili fiori stellati dal colore blu. La cicoria nuova nata sotto le spine del Ferocactus Gracilis mostrare imitandolo, le per niente aggressive foglioline roncinate. Mi figuro già il suo futuro contendere con uno svettante caule, alla grande colonna spinosa e lanosa dell’Espostoa Melanostele, un raggio di sole per la maturazione dei fiori azzurri. La serpeggiante mentuccia ricadere alla ricerca di nuovo terreno tra i bei fiori peduli color fucsia e rosso acceso della Schlumbergera frida “cactus di natale”. La bella Begonia coccinea Hook: slanciata assottiglia verso l’alto, la vedo sfiorare titubante le radici aeree che spuntano lungo il fusto sottile e angolato del Selenicereus Pteranthus, evitare le costolature con le rade e regolari areole spinose per rivaleggiare con le improvvise e brevi fioriture notturne: coriandoli di piccoli fiori discreti, raccolti in rametti resistenti lunghi giorni quelle della Begonia, appariscenti, grandi a lungo tubo con numerose file di petali, belli per una sola notte quelli del Selenicereus. Queste non sono commestibili, sono un eccezione a cui non resisto. Sono belle non chiedono molto e sono generose.
Chi sa! anche nei giardini pensili di Babilonia avranno utilizzato le piante per farne manicaretti.
Mi immagino sigillare con stampo tondo, festonato futuri ravioli di sottile e porosa pasta all’uovo farciti con ripieno di foglioline di borragine e ricotta. Le cimette fresche della Borragine, prima insaporite e scottate, appena in una padella: rosolandole in olio d’oliva insieme ad un leggero e fine battuto di scalogno. Unite alla ricotta fresca e a due foglioline di mentuccia spezzettate a mano, solo una festonata a pioggia di pane grattugiato, eventualmente un filo d’olio, sale quanto basta.
Passarli in padella poco prima di servirli, farli girare nel sughetto che resta facendo sfumare del brandy in olio d’oliva completando con una spolverata di parmigiano, solo una presa da fondere leggermente sul fuoco.
Assaggiare chiudendo gli occhi e immaginare che sia tutto vero!

domenica 1 agosto 2010

Idiota

«Idiota!», idiota io che mi trovo nuovamente in questa situazione.
Nei programmi non doveva più accadere. Errore umano diranno. Il mio.
Nel contratto stava scritto nelle note 23 e 25 - voce 178, ma chi legge le note 23 e 25 di un contratto di 320 voci che firmano tutti? Speri nella fortuna di centrare proprio quella che non va e che ti mette in allarme.
«Non ridete. Non autorizzo a prendervi gioco di me». Magari domani quando anche io riuscirò a vederne il lato ironico.
«A trovarlo il lato ironico». Quarant’anni di vita insieme, oramai la ritenevo parte di me, due corpi e un anima. Lei si era impegnata a impedirmi figure da idiota io a passarle una retta di 1'500 euro al mese con scatti annuali. Quarant’anni totali e molti degli ultimi impegnati a far carriera per potermi permettere Lei. Sapete cosa hanno significato per uno come me? Neanche mia moglie ha ricevuto dedizione e attenzione per così tanto tempo.
«Eh! Se nel frattempo ci fosse scappato qualcosa». Non me la sarei fatta scappare del resto sono un uomo, il timone guida la mia carcassa».
«Con voi posso esser sincero, ci fosse scappato qualcosa. Niente solo ad immaginarla la situazione sfumava». Illudeva quella che con sguardi ammiccanti e la bocca semi aperta ed umida alludeva.
«Pure io alludo e illudo!». Mi ricorda. Professionale, efficiente la mia coscienza.
«Ma non l’avevo licenziata?».
«No, siamo in causa. Il contratto sarà recesso allo scadere, come pattuito». Nel frattempo lei è qui.
«Capite quali voci non avevo letto? Le voci che non mi permettono di metterla a tacere, che non mi permettono di far come voglio, di ignorarla».
«Impossibile, hai firmato un contratto».
«Basta!».
«Impossibile, hai firmato un contratto».
«Impossibile farla tacere!».
«Ah, ah, ah, ah! Ecco rido, rido, rido e rido! Alla faccia della coscienza. Ah, ah, ah, ah! Ecco qui non ti sento, se rido il mio ridere è così grasso e forte che non ti sento».
«Che dici?»
«Cosa ho da nascondere?»
«A cosa voglio fuggire?». Non si rende conto del condizionamento, giudica dall’alto e giuda il mio volere dove vuole lei, mia padrona senza macchia ignara del dramma di cui è artefice.
«Non voglio fuggire, voglio essere libero!»
«Ah! Stasera non voglio tornare a casa, chiamo Mario e andiamo a cena fuori torniamo quando ci pare. Anzi no, non torniamo per niente chiamiamo Peppe e lo raggiungiamo a Roma andiamo in uno di quei posti dove si beve e si fuma fin al mattino, conosciamo donne».
«Questa è trasgressione?» Serpeggia la vipera.
«Questa è una sfida». Ti sistemo io, tattica sessista.
«Adesso chiamo chi sai tu. Lo sai che ha un debole per me. L’hai vista anche tu!». L’hai vista. Bastarda, ora capisco, mi hai fermato.
«La invito fuori, due moine, una carezza, mi avvicino e lo sai che se voglio … ».
«… La faccio contenta». Bastarda, ti prendi gioco di me.
«Non cominciare a ricordarmelo, no! Ultimamente va meglio, non è più successo».
«Si, immagino che tu abbia tenuto il conto, ma non voglio sapere».
«Non dovrei farla tanto grossa. Ma senti tu! Basterebbe farsi vedere una volta dal medico».
«Nel contratto si dice che sei la mia coscienza non la mia personale campagna per la prevenzione, così mi fai venire la depressione». Mai confidare le tue debolezze, potranno venir utilizzate contro di te.
«Senti, ora piantala o tutti crederanno che a me ci tieni! Credetemi è subdola, si insinua silenziosa e tagliente come una lama e come una lama dilania la mia libertà e la mia autostima».
«Non puoi lasciarmi andare al mio destino?».
«Impossibile, hai firmato un contratto».
«Impossibile, hai firmato un contratto». «Impossibile, hai firmato un contratto». «Bastaaaaa!» Ho bisogno di dormire. Mi ha svegliato ancora. Il caldo, le zanzare, Lei.
«Hai firmato un contratto!». Non è lei, lo urlano fuori dalla finestra. Mi avvicino alla tapparella, è così sudicia che devo fare attenzione a non toccarla. Due figure sul terrazzo di fronte illuminate alle spalle dalla fioca luce della cucina. Un uomo, una donna. No, sono tre: due uomini e un ragazzo. Uno lo trattiene l’altro lo percuote con qualcosa.
«Ehi, voi fermatevi! Ho chiamato la Polizia!». Guardano nella notte ma non vedono nulla, sono nascosto dietro la tapparella abbassata.
«Fermi! Lasciatelo ho chiamato la Polizia». Fanno un gesto disperato per far superare al corpo il balcone, lui si divincola, reagisce. Si capisce che quelli sono professionisti. Il corpo del ragazzo è lanciato fuori dalla ringhiera. In pochi secondi il balcone si svuota. Le tapparelle con grande rumore si sollevano, la gente si affaccia commenta. La notte sarà lunga tento di riaddormentarmi, ma il vociare, le sirene delle auto, il caldo, le zanzare, Lei.
«Dovrei denunciarli, testimoniare, ma anche no!». Non è civile.
«Se non avessi gridato sarebbe ancora vivo, ma cosa potevo fare». Forse.
«Piantala, non ti sento. Quelli mi ammazzano». Tace.

«Odio prendere gli aerei ad agosto, tutta questa gente che si muove per andare il vacanza o per tornare dalla vacanza tutti comunque stressati».
«Guarda tu questa mezza nuda, maglia senza spalline e senza il reggiseno».
«Si certo può permetterselo avrà vent’anni una bella pelle ancora compatta maltrattata dall’abbronzatura, rosso mela a strisce ambra bianca». Sta li che ogni tanto tira su, un po' una un po' l’altra, che pensa non la vediamo?
«Si, ti aiutiamo a mettere la valigia a posto, anzi lo fa il belloccio ormonato, tranquilla ti ha notato».
«Ehi, ma che fai?». Vuoi stare attento stai sparpagliando per l’intero aereo tutta la roba che quella è riuscita a mettere li dentro.
«Senta, le son caduti anche questi 20 euro». Ringrazia incredula la “melozza”, non ci sto provando. Credimi, non ho scelta.
«Il contratto è scaduto». Mi giro. Lo ha detto una bella donna sui quaranta seduta sulla mia fila lei lato finestrino.
«Prego?»
«Non sei costretto, il contratto è stato sciolto. Hai scelto». Quella voce mi ricorda Lei.
«Ci conosciamo?»
«Non proprio».
«Di vista?».
«Diciamo che il nostro … è un punto di vista privilegiato».

venerdì 15 gennaio 2010

La Mostra


Si è perduta ancora, contava sull’intuito ed ha cominciato a camminare nella direzione opposta. In questi casi avvisare è fondamentale, fruga nella borsa cercando il telefonino. Persone le camminano accanto, macchine sfilano veloci e autobus si susseguono, non è più abituata al traffico di una grande città. Poche informazioni e riparte. Rallenta il passo mentre alza il braccio per salutare. Un uomo si stacca dal gruppo e le và incontro. Sorridono e parlano avvicinandosi agli altri.
«Buongiorno». Il gruppo risponde con un cenno del capo. Ascoltano lui.
«Lei è Anna». Poi si rivolge a lei, «Erano tutti curiosi di conoscerti. Ti presento Diego, Mattia e Sara».
«Il piacere è mio ragazzi, non vedo l’ora di cominciare».
La galleria ha una grande sala ovale al primo piano, il gruppetto si inoltra chiacchierando sottovoce, percorre l’ampia scala marmorea a lato della biglietteria e raggiunge la sala centrale dove numerosi scatoloni sono diligentemente sistemati a centro stanza.
Anna la percorre in silenzio, comincia a misurarne la grandezza con i passi, mentre scruta altezza e lunghezza delle pareti utili all’esposizione, valuta la luce artificiale delle lampade.
Gli altri hanno cominciato ad aprire gli imballi dei pezzi che comporranno la mostra.
L’uomo e la donna a fine giornata, restano soli.
«Anna, vieni a vedere, di questo non trovo la scheda autore».
«Ah! Si. Non lo troverai, non esiste autore. Quella foto l’ho scattata io»
«E’ bellissima, non sapevo fotografassi»
«Non fotografo infatti, si è trattato di un colpo di fortuna».
«Dove pensi di metterla? Starebbe bene in apertura».
«Non ho ancora deciso. Dici che è bella?». La donna prende la foto e la guarda assorta, passano alcuni minuti ed è ancora li. L’uomo cerca di immaginare dove sia stata scattata. Quando sembra deciso a chiederlo, lei si ridesta. Appoggia l’immagine agli scatoloni in maniera che si veda e si allontana di alcuni passi, si gira, la osserva.
«Dove l’hai scattata?»
«Cagliari, quella donna mi ha fatto salire sull’ultimo aereo partito pochi minuti prima che la piena si portasse via tutto».
«Ti riferisci all’alluvione del 2008?».

«Lei sapeva quello che stava per accadere, ma non ha fatto trasparire nulla. Tutti noi eravamo tranquillizzati dalla sua calma. Quando le ho chiesto di cambiare destinazione - il mio appuntamento a Torino era saltato – mi ha detto di seguirla».
«L’hai seguita?»
«Ho seguito lei e la guardia dell’aeroporto che la accompagnava. Siamo andate in un'altra stanza, all’unico terminale ancora in funzione. Eravamo solo noi, ha cominciato a digitare, l’unico cedimento quando la tastiera non ha risposto»
«Cosa ha fatto?»
«Ha cominciato a pigiare sui tasti a due mani dicendo: “Se solo questo coso funzionasse”. I suoi capelli neri, dritti seguivano il movimento scomposto del capo che andava su e giù».
«Potevi andare a Torino»
«Sarebbe partito un ora dopo, Roma partiva subito. Ci siamo guardate, ha preso il biglietto che avevo in mano barrato Torino, scritto Roma e siglato. Quella sigla è stato il mio pass, dieci minuti dopo ero su un aereo seduta al posto di una hostes».
«Anna, stai bene?»
«Non so neanche io come ho fatto a scattare questa foto, mi ha guidato l’istinto». La donna guarda l’immagine. Poi si gira, «Ho fame, tu no?».

Qualche giorno dopo, ore 19,00. Vernissage della mostra. Nella sala ovale Anna e gli altri sono accompagnati da una piccola folla. Terminata la presentazione cominciano a disperdersi per osservare le opere alle pareti. La foto con un volto di donna girato a tre quarti chiude la mostra, Anna si sofferma ancora qualche minuto a studiarla poi si avvia per le scale ed esce in strada, si gira a guardare il banner pubblicitario fuori della galleria, si legge grande: “Anni Zero”, di taglio appare ancora una volta il volto di quella donna. La osserva, sorride respira a fondo e si immerge nuovamente nel traffico.

giovedì 10 dicembre 2009

Essere Uno



Questo è il periodo peggiore dell’anno. Inutile tentare la fuga, tutti malati di momentaneo buonismo. In batteria ti fermano, salutano e fanno auguri. Chiedono come stai, cosa hai fatto in questi anni, e appena provi ad accennare a qualcosa, cominciano a raccontare le disgrazie di mezza famiglia, tanto per farti sentire fortunato, solo qualche raffreddore negli ultimi tre anni. Saluti facendo: «Tanti auguri di salute a tutti». Sei lì e ascolti cortese, chiedendoti “Dove, la selezione della specie ha sbagliato?”
Tutto concertato, pochi giorni di solidale consumistico Natale.
Tornati a casa chiudono avidamente la porta e si imbottiscono di pillole per il colesterolo, gocce per l’ansia, pasticchette per il cuore e dimenticano il mondo.
Guardo con la mia faccia innocua tutte queste persone che corrono.
Aspetto lei, sono tre giorni che aspetto, comincio a preoccuparmi. La puntualità non è il suo forte ma non ha mai tardato più di due ore. Sono davanti al portone di casa sua. Qua sotto non ci sono bar, se ci fossero sarebbe più facile. Fingo di aspettare qualcuno. Devo stare attento, la gente mi guarda. Do a intendere di parlare al telefono, scendo e mi avvicino ad un portone. In genere smettono presto di diffidare ci fanno l’abitudine. Non ho un aspetto minaccioso, appaio distinto, innocuo. Quelli che incrocio più spesso li saluto, come se abitassi in zona. La gente dopo un po’ non ci fa’ più caso. Si danno sempre una spiegazione – Il padre di quella del terzo piano; qualcuno pensa l’amante della brunetta del quinto, quella che a cinquant’anni và in giro ancora con le minigonne; per altri sono l’amico di quella che porta fuori il cane e tutte le mattine compra un pacchetto di Gauloises dal tabaccaio in piazza. Per loro divento ben preso routine e io gratificato dall’attribuzione di tutte queste amicizie femminili, mi ringalluzzisco. Soprattutto gli anziani, non avendo molto da fare mi guardano dal balcone o quando escono col cane. Le vecchie così affacciate sembrano provate, le pervade una certa tristezza. Non riesco a farmele piacere, sento che incarnano la fine, non vedo futuro in loro, spente, lagnose, pesanti come se la gravità fosse accanita su loro.
Ancor più evidente quando gli passano accanto i giovani, argento vivo che rende precario il loro equilibrio. Sembrano barchette sul mare calmo a cui sfreccia vicino un motoscafo. Cominciano ad ondeggiare in balia di chissà quali correnti. E l’invidia le spinge a borbottare. Non le capisco. Un uomo come me sente la morte come sorella. Sollevatrice dalle angosce. Non mi piacciono le vecchie.
Lei non arriva, tornerò domani.
Ecco, oggi va meglio, torna presto dal lavoro. Ha gusto per molte cose. Mi piace quel suo modo di camminare, anche carica di pesi. Torna dal negozio con la borsa di tela, a volte ne ha anche due o la cassa d’acqua, tutto quel peso trasportato con dignità africana. Ai miei tempi non avrei fatto quest’esempio, le donne portavano pesi sulla testa per chilometri e sembrava che la fatica non le riguardasse. Sembravano sfiorare il suolo tanto il loro passo era leggero.
Lei me le ricorda. L’ho notata per il suo modo di vestire, si distingue, non c’è niente di lei che sembri alla moda o di tendenza, eppure si distingue. Non è di sicuro una delle tante copia-veline televisive che si vedono in giro e che piacciono tanto ai mosconi di oggi. Anzi se volete, fuori moda per i tempi che corrono, troppa carne intorno alle ossa, ma per uno dei miei tempi è un piacere per gli occhi.
Sa stare al posto suo. L’ho ascoltata raccontare all’amica del suo lavoro, non ho capito bene cosa faccia, ha una squadra a cui da ordini e comanda degli uomini. Dice che è difficile. Sa dei commenti che fanno sulle sue poppe e sul resto.
Bestie, ai tempi miei ci facevamo la corte alle donne. Non c’era malizia, le rispettavamo. Era bello corteggiarne una, ragazza o sposata che fosse, era un dovere scambiare due parole farle un complimento in amicizia, accompagnarla se andava sola per non farle accadere nulla di male.
Ai miei tempi le donne si spaccavano la schiena come ha fatto mia moglie allevando i figli e andando a servizio per arrotondare il mio stipendio. Ricordo le sue mani, il nero sotto le unghie anche se le strofinava fino a farle diventare rosse.
Questa è una signora, come tante donne oggi. Le mani sono curate, pittura le unghie con un lucido naturale niente di sgargiante. Sono belle le mani delle donne oggi. Se penso a una carezza, penso a certe signorine dei tempi miei. Morbide manine senza calli.
Il volto ovale assume un taglio duro con i capelli lunghi legati stretti in una coda alta. Veste abiti neri a cui concede il colore di un foulard o di una sciarpa. Queste mi hanno colpito.
Foulard e cravatte, ne ho una vera passione, mia moglie non capiva perché spendessi tanti soldi per una cravatta. Ero capace di lucidare per anni le stesse scarpe, fino a consumarne la tomaia pur di conservare i soldi per comprare quella che mi piaceva. E che figurone ci facevo quando andavamo a ballare, il barone mi chiamavano. Mi piaceva avere l’attenzione della sala, la sua bella figura che volteggiava tra le mie braccia ed i miei foulard. Per questo apprezzo chi ha gusto nel coprire il collo. Lei ha un bel collo da coprire. E io continuo a spendere soldi per coprire il mio.
Voi pensate che debba essere un po’ innamorato di lei, tanto ne parlo. Sciocchi, chiaro che mi piace ma non è come pensate.
Seduto accanto al suo gruppo di amici li ascolto programmare la serata, non ha un ragazzo è sola. Meglio, tutti imbecilli. Con due non ne fai uno buono.
Lei dice di no, con le amiche insiste, hanno tante qualità vanno incoraggiati. Dice che le donne di oggi li spaventano.
Stronzate, sono dei mollaccioni. Un invettiva in piazza mi verrebbe da fare. Ma si è mai visto? Ma che credono sia la vita? Una città dei balocchi eterna. Poi si lamentano di quel dolore e noia che sentono. Questi rimandano la vita, soffrono convinti che sia così che si deve fare, si fanno scappare gl’anni così. I sogni li fanno ammuffire questi coglioni.
Meno male che ho avuto tutte femmine. Per digerire i loro mariti c’ho messo anni ma almeno si impegnano, si danno da fare per i figli. In tanti anni ho capito, come disse Biagi - il giornalista - «Il momento del coglione capita a tutti.»
«Aspettiamo che passi.» Questo dicevo sempre alle mie figlie.
Che ci sto a fare ancora qua sotto? Solo. Per farle compagnia. E lei non sa neanche che esisto. Penserà anche lei che sono un suo vicino, ha cominciato a rispondere al mio saluto. Buongiorno e buonasera. L’altra sera l’ho vista che scendeva con le buste dell’immondizia, fa la differenziata, brava ragazza. Ho avuto un colpo di genio, al volo ho raccolto le buste lasciate a terra, la lattina di chinotto e il pacchetto di carta che quel cretino con il suv ha lanciato in terra prima di sparire dietro l’angolo. E mi sono avvicinato ai secchioni. Lei mi ha visto che raccoglievo il pacchetto da terra. «Non lo farebbero tutti, lei è fuori dal comune, complimenti per il gesto». Così da vicino la vedo meglio, gli occhi dello stesso colore della madre. Resto un po’ impacciato, lei se ne accorge e mi sorride. Una macchina si avvicina, lei fa’ cenno che arriva.
«Arrivederci» saluta lei. «Arrivederci» dico io.
«Piccola mia», avrei voluto dire invece. Mi accarezzo il foulard, stasera lo avevamo dello stesso colore.
(pubblicato in data 21 settembre 2009)